La leggenda della zucca di Halloween

Zucca di HalloweenLa festa di Halloween ha origini molto antiche, per alcuni studiosi deriva dal culto della dea romana dei frutti e dei semi Panoma per altri dalla festa romana dei morti chiamata Parentalia.

Secondo lo storico Nicolas Rogers le origini di Halloween sono riconducibili alla festa celtica Samhain che segnava l'inizio dell'inverno.

Ma quali sono le origini della zucca e della Jack o'lantern?
La leggenda narra che un fabbro irlandese di nome Jack era solito andare al pub locale per ubriacarsi, un giorno mentre era intento a tracannare una pinta di birra ebbe la visita del diavolo che gli disse di essere venuto per prendere la sua anima. L'uomo piangente supplicò il diavolo di realizzare un ultimo desiderio prima di finire all'inferno: un'ultima bevuta.

Però l'uomo era a corto di monete così il diavolo - lo fanno sempre davvero stupido sto diavolo - si trasformò in moneta per consentire all'uomo di acquistare l'ultima birra. Ma l'astuto fabbro mise la moneta nel portamonete nel quale era contenuta anche una croce d'argento benedetta che intrappolò il diavolo impedendogli di riacquistare la forma originaria.

Cosicché il diavolo promise a Jack che se lo avesse liberato avrebbe lasciato in pace la sua anima per altri dieci anni.

Gli anni passarono in fretta e il diavolo riapparve puntualmente per prendere l'anima di Jack, ma l'uomo - che ne sapeva una più del diavolo - riuscì a strappare nuovamente un ultimo desiderio e gli chiese se potesse salire sull'albero per prendergli una mela e quando fu sopra, incise un croce sul tronco cosicché il diavolo non riuscì più a scendere rimanendo nuovamente imprigionato. Questa volta in cambiò della libertà il furbo Jack pretese la garanzia che mai e poi mai la sua anima sarebbe finita all'inferno...

L'anno seguente morì. E la sua anima fu rifiutata dal paradiso perché quando era in vita ne aveva combinate di cotte e di crude. E anche dall'inferno per via del patto non gli fu concesso di entrare però gli fu donato un pezzo di tizzone ardente per potersi scaldare e illuminare la strada del limbo nel quale era caduto.

Nella notte di Halloween si può ancora vedere vagare la lanterna con la luce di Jack - Jack o'lantern - in cerca di una casa.

La tradizione irlandese vuole che nella notte di ognissanti, davanti a ogni uscio venga messa una rapa con una candela dentro per avvertire l'anima dannata di Jack che non c'è posto in quella casa. La tradizione fu poi portata negli Stati Uniti dagli immigrati irlandesi durante la forte emigrazione causata dalla carestia di patate che colpì l'Irlanda dal 1845 al 1849, dove per fare la Jack o'lantern al posto della rapa fu utilizzata la famosissima Zucca arancione.




Lapalisse. Storia di una svista

Lapide LapalisseLa prima volta che sentii parlare del Maresciallo La Palice o Lapalisse (1470, 1525), me l'ero immaginato come un presuntuoso aristocratico, col naso incipriato e un ridicolo parruccone pieno di boccoli sulla testa, sempre pronto a elargire consigli non richiesti e a fare discorsi deliranti infarciti di ovvietà.

L'ho immaginato deriso di nascosto dal salotto di corte; e ogniqualvolta si prestava a fare un discorso, suscitava ilarità tra i presenti, i quali obbligati dall'etichetta a mantenere un certo contegno, si limitavano a scambiarsi occhiate d'intesa e a ridacchiare di tanto in tanto nascondendosi dietro qualche colpo di tosse.

L'ho immaginato giustiziato come nemico del popolo durante la Rivoluzione Francese, tra le fragorose risate della piazza dopo aver ascoltato le sue ultime parole.

Niente di più sbagliato
Jacques II Chabannes de La Palice e signore di La Palice, Pacy, Chauverothe, Bort-le-Comte e Le Héron, era un militare in carriera che si guadagnò sul campo di battaglia il grado di Maresciallo e il titolo nobiliare. Combatté per la Francia e per il Re per più di quarant'anni vincendo e perdendo battaglie, finché un giorno, il povero Maresciallo cadde durante l'assedio di Pavia. Kaput, fine della storia.

Probabilmente nessuno si ricorderebbe di lui, se non fosse che qualcuno decise di canzonare quello che fu scritto sulla sua tomba - distrutta poi dai giacobini di Robespierre due secoli dopo...

L'epitaffio
Per ricordare il suo valore i suoi uomini scrissero una cantica:

FR
« Hélas, La Palice est mort,
il est mort devant Pavie;
hélas, s'il n'estoit pas mort
il ferait encore envie. »

IT
« Ahimè, La Palice è morto,
è morto davanti a Pavia;
ahimè, se non fosse morto
farebbe ancora invidia. » 

Non si sa se l'incisore fosse distratto, ubriaco o lo fece per burla - semmai sarebbe stato uno scherzo degno delle migliori zingarate di Amici Miei - però all'epoca la f e la s in francese erano graficamente molto simili e si distinguevano solo per un trattino posto a metà della lettera.

Come si sa l'errore è sempre in agguato così: ferait (farebbe) diventò serait (sarebbe) e lo spazio tra una lettera e l'altra a volte era incerto e invidia (envie) diventò in vita (en vie), tant'è che sulla lapide fu inciso questo:

FR
« Hélas, La Palice est mort,
il est mort devant Pavie;
hélas, s'il n'estoit pas mort
il serait encore en vie. »

IT
« Ahimè, La Palice è morto,
è morto davanti a Pavia;
ahimè, se non fosse morto
sarebbe ancora in vita. »

Più di un secolo più tardi Bernard de La Monnoye scopri la lapide nella sua forma "Se non fosse morto sarebbe ancora in vita" e compose una simpatica canzone che rovinò per sempre la reputazione del Maresciallo. Lapalissiano, no?

Il condannato a morte. Tra logica e probabilità

StatuettaUn archeologo durante uno scavo vicino ad un'antica città sumera trovò una tavoletta d'argilla scritta in caratteri cuneiformi e iniziò a tradurre quello che sembrava essere un diario...

Nella gelida cella sto già aspettando che i tamburi comincino a scandire il tempo che mi separa tra la vita e la morte, rifletto sul mio passato perché al tramonto verrò giustiziato. Ma forse l'imperatore nella sua magnanimità mi darà la possibilità di salvarmi la vita sottoponendomi al gioco delle pietre - a cui nessuno e mai sopravvissuto - e al volere degli Annunaki.

l'indovinello del gioco delle pietre
Ci sono due mucchi uguali di 50 piccole pietre di argilla bianca e argilla rossa e due cesti. Il condannato dovrà mettere tutte le 100 pietre nei cesti con la possibilità di mescolare pietre bianche e rosse nella quantità voluta. Poi un sacerdote bendato pescherà da uno dei due cesti - senza sapere quale - una pietra, se sarà bianca il giocatore avrà salva la vita altrimenti verrà eseguita la sentenza di morte.

...un cigolio di porta mi distolse dai pensieri. "Alzati prigioniero è l'ora della prova delle pietre." Fu così che iniziai a ridere istericamente.


Come mai il prigioniero fu felice di essere sottoposto alla prova?




La vita della nostra mente

La vita della nostra menteVi segnalo un bel libro scritto da Edoardo Boncinelli, che fa luce sui meccanismi mentali che ci accompagnano durante tutta la vita, mutando giorno dopo giorno rendendoci quello che siamo. Il libro conduce alla scoperta del funzionamento della mente per rispondere all'eterna domanda:"Chi siamo?".

Dai primi anni di vita, fino all'età adulta e infine al tramonto. Attraversando le tappe che la mente compie nelle diverse età e le abilità e facoltà - come memoria, percezione, emotività - che man mano acquisiamo o perdiamo con l'andar del tempo.

Cento miliardi di cellule compongono il cervello, dove si sviluppa la nostra mente. Edoardo Boncinelli spiega come si forma, matura e invecchia quella 'cosa' che ci distingue da tutti gli altri animali. «A un certo momento si nasce.

Il primo respiro è un evento fondamentale. Il neonato può respirare da solo e l'improvviso innalzamento del livello di ossigenazione del sangue innesca tutta una serie di processi a cascata che rendono irreversibile l'intero processo: da questo momento, indietro non si torna».

Da quell'attimo in poi, cresce insieme a noi anche la mente, ossia tutto ciò che accade nella nostra testa, tutto ciò che ci fa vivere, ci rende noi stessi, ci fa pensare, soffrire, gioire.

Edoardo Boncinelli conduce alla scoperta della mente, descrive il suo funzionamento e con l'ausilio delle scienze che la studiano – neurologia, biologia, filosofia, antropologia fra le altre – risponde ad alcune delle domande che tutti ci poniamo: che cos'è la mente? come cambia nel corso della nostra vita? perché invecchiamo? e corpo e mente vanno di pari passo? Che cosa ci fa dire: «penso questo», «credo questo», «sento questo», «voglio questo»? Che cosa ci ricorda chi siamo e che cosa stiamo facendo e quello che ci piacerebbe fare? Che cosa ci permette di pronunciare una frase o di leggere la pagina di questo libro?




Paradosso di Fermi

AlienoCorreva il 1950, durante la pausa pranzo nella mensa del laboratorio di Los Alamos e tra Enrico Fermi e i colleghi avvenne una conversazione riguardante una vignetta apparsa sul giornale locale che ironizzava su un presunto avvistamento UFO e la possibilità dell'esistenza sulla Terra di forme di vita extraterrestri.

Fermi che si era estraniato dalla conversazione, pensieroso e con lo sguardo fisso sul piatto, ad un certo punto alzò il capo e sbottò:"MA DOVE DIAVOLO SONO FINITI TUTTI QUANTI?"

Enrico Fermi (1901, 1954) premio Nobel per la fisica nel 1938; era solito porre ai suoi studenti problemi che a prima vista sembravano impossibili ma scomposti in sottoproblemi in modo da poter fare delle ipotesi su quantità altrimenti difficili da stimare - qualcosa di simile a quello fatto per risolvere il rompicapo più difficile del mondo.

Un esempio del paradosso di Fermi
"Quanti accordatori di pianoforte ci sono nella città di Chicago?"

Apparentemente il problema sembra impossibile oppure risolvibile con chissà quale formula matematica, invece:
  • sapendo che il numero degli abitanti di Chicago (5.000.000)
  • la composizione dei nuclei famigliari (2 persone di media per nucleo)
  • le famiglie che hanno un pianoforte accordato regolarmente 1 volta l'anno sono 1 ogni 20
  • il tempo necessario per accordare un pianoforte è di circa 2 ore (compreso spostamento)
  • la giornata lavorativa standard è di 8 ore per 5 giorni la settimana per 50 settimane l'anno
Soluzione;
  • (5.000.000/2)×(1/20)× 1 = 125.000 accordature di pianoforte all'anno 
  • (50×5×8)×(1/2) = 1000 accordature di pianoforti per anno per accordatore 
  • 125.000/1000= 125 accordatori di pianoforte a Chicago.

Paradosso di Fermi

Se ci sono così tante civiltà evolute, perché non abbiamo ancora ricevuto prove di vita extraterrestre come trasmissioni di segnali radio, sonde o navi spaziali?

Il paradosso di Fermi si basa sul fatto che ammesso che esistano altre forme di vita senzienti nell'universo e civiltà più antiche e quindi si presume anche più evolute di noi come mai non abbiamo mai avuto un contatto ufficiale o una qualsiasi prova dell'esistenza di esse?

Undici anni più tardi la discussione di Los Alamos l'astrofisico Frank Drake formulò l'omonima equazione di Drake - che per ironia si rifà come metodo a quello della risoluzione del problema di Fermi - la quale descrive matematicamente il numero di civiltà extraterrestri presenti nell'universo e in grado di comunicare con noi.

Un paradosso e': "una conclusione apparentemente inaccettabile, che deriva da premesse apparentemente accettabili per mezzo di un ragionamento apparentemente accettabile"

E tanto più la nostra idea di densità di vita nell'universo, tanto più il paradosso di Fermi indica come soluzione estrema che noi siamo l'unica civiltà esistente.




5 possibili soluzioni al paradosso di Fermi:
  • Siamo soli (che tristezza)
  • Le civiltà evolute hanno breve durata (l'autodistruzione)
  • Esistono ma sono troppo lontane (la relatività di Einstein)
  • Esistono ma non comunicano o non vogliono comunicare (tutti xenophobi)
  • Non siamo in grado di ricevere i loro segnali (ciò che non si vede o si sente, non esiste)
Se volete più soluzioni, Stephen Weeb ha raccolto nel libro "Se l'universo brulica di alieni... dove sono tutti quanti? 50 soluzioni al paradosso di Fermi e al problema della vita extraterrestre", una sua soluzione personalisssima più 49 soluzioni proposte da filosofi, matematici, ricercatori, scrittori di fantascienza e gente comune divise in tre gruppi:
  • Sono tra noi
  • Esistono, ma non hanno ancora comunicato
  • Non esistono se non nella fantasia

Psicocibernetica: l'arte del timoniere

Psicocibernetica
Scrissi tempo fa la storia di Milton Erickson e l'origine delle sue straordinarie capacità ipnotiche, oggi introduco un altro maestro della dinamica mentale - dai cui hanno attinto a piene mani la PNL e le tecniche di sviluppo personale - Maxwell Maltz (1899, 1975) chirurgo plastico che molti anni fa scrisse psicocibernetica un libro bestseller che porta alla luce un fenomeno psicologico fino allora sottovalutato; l'immagine di sé.

La scoperta di Maxwell Maltz fu dovuta a un'intuizione maturata nei rapporti con i pazienti che si sottoponevano a chirurgia plastica alcuni perché orrendamente sfigurati altri perché non si piacevano ma tutti in un modo o nell'altro condizionati dall'immagine interna che avevano di se stessi.

Tant'è che dopo l'operazione alcuni pazienti continuavano a vedersi "brutti" come se fossero ancora deturpati. Perché questo non accadeva agli studenti tedeschi che portavano con orgoglio le loro cicatrici d'arma bianca sul volto?




Il libro - in realtà un vero e proprio manuale per lo sviluppo personale - si basa sul concetto per il quale il nostro cervello non fa differenza fra esperienze reali e quelle vividamente immaginate e descrive 15 punti per migliorarsi, attraverso la presa di coscienza dei meccanismi mentali coinvolti nella creazione dell'immagine interna:
  • Creare una nuova immagine di sé
  • Il sistema guida interno
  • La programmazione del meccanismo del successo
  • L'immaginazione creativa
  • Usare il pensiero a proprio vantaggio
  • Il potere del pensiero razionale
  • Il rilassamento creativo
  • L'abitudine alla felicità
  • Usare il meccanismo del fallimento a proprio favore
  • Eliminare le cicatrici emotive
  • Sbloccare la vera personalità
  • I tranquillanti mentali
  • Trasformare ogni crisi in successo e felicità
  • Acquisizione della sensazione di vittoria

La cibernetica è una scienza crocevia e il suo nome platonico ricopre un determinato campo delle attività mentali che si trova a contatto di una molteplicità di scienze e di tecniche.

In questo libro la psicocibernetica è applicata alla psicologia.

Fondato su una meravigliosa intuizione scientifica, questo libro semplice e pratico può avere una influenza di grande rilievo sulla vostra vita. Porta un contributo fondamentale alla conoscenza di sé e alla possibilità di perfezionare se stessi.
"In larga misura, è semplicemente per abitudine che abbiamo una reazione di scontentezza, insoddisfazione, risentimento e irritazione in seguito a piccole contrarietà, a delusioni o ad altri avvenimenti analoghi.
Noi abbiamo reagito in questo modo così a lungo, che è diventata un'abitudine per noi. In linea di massima, questa nostra reazione di infelicità ha origine dal fatto che abbiamo interpretato un qualsiasi avvenimento come una scossa alla stima che abbiamo di noi stessi.
Un automobilista ci suona il clacson senza necessità, qualcuno ci interrompe e non fa attenzione mentre parliamo, qualcun altro non agisce verso di noi come noi pensiamo dovrebbe agire; a tutto questo e anche ad eventi che non ci toccano personalmente reagiamo come se fossero affronti alla stima che nutriamo per noi stessi, perchè li interpretiamo come tali.
L'autobus che dovevamo prendere arriva in ritardo, quando vogliamo giocare a golf piove, se dobbiamo prendere l'aereo ci troviamo in un ingorgo di traffico: a tutto ciò abbiamo una reazione di rabbia, di risentimento, di autocompassione; in una parola, di infelicità."
Maxwell Maltz

Test di creatività: quanto sei creativo?

Quello che segue è uno dei primi test per il calcolo del QI (Quoziente Intellettivo) elaborati da Hans Jürgen Eysenck (1916, 1997) psicologo inglese di origine tedesca noto per i suoi studi nella psicologia, nella psicometria e autore di numerosi libri sull'intelligenza. Il test d'intelligenza è composto da 40 domande da completare in mezz'ora, che spaziano attraverso i vari campi dell'intelligenza: capacità verbali, matematiche e visivo-spaziali.

Non perdete troppo tempo a rispondere a ogni singola domanda, potete procedere fino alla fine del test e poi tornate indietro, sfruttando il tempo residuo per riflettere su quelle tralasciate.

Sottolineo come già fatto per il test di intelligenza non verbale di Raven che questi test dovrebbero essere fatti in un ambiente idoneo e sotto la supervisione di uno psicologo e quindi di prendere questo test per quanto identico all'originale solo come un gioco. Il test è particolarmente divertente ed è stato proposto nel corso memo memoria e metodo.





Inoltre ricordate che, le lettere vanno scritte in minuscolo, è possibile spuntare un'unica opzione nel caso delle risposte multiple, ogni tavola ha un proprio campo per l'inserimento della risposta, nel caso di orari la formattazione giusta da utilizzare è come quella dell'esempio che segue: (8.30). Buon divertimento.

La memoria di Proust

Marcel Proust
Marcel Proust, ritratto
da Jacques-Emile Blanche
Marcel Proust scrisse tra il 1909 e 1922, "Alla ricerca del tempo perduto". Nel primo libro dell'opera - sono 7 in tutto - "Dalla parte di Swann" o "La strada di Swann" è contenuto un brano che descrive un ricordo, carico di piacevoli sensazioni di un passato perfettamente presente, che riaffiora nella mente del protagonista quando assapora un piccolo dolcetto, una maddalena inzuppata nel tè.

La memoria volontaria richiama freddamente tutti i dati del passato ma in termini logici senza le sensazioni ad essa associate, e la memoria spontanea e involontaria sollecitata da profumi o sapori, sensazioni in modo alogico che ci permette di ricordare e "sentire" il passato come si svolgeva nel suo clima; questi sono temi ricorrenti nell'opera di Proust il quale riteneva che il recupero del passato non sempre è possibile.


Estratto del primo capitolo "Combray"
Così per molto tempo, quando, stando sveglio di notte, ripensavo a Combray, non ne rividi mai se non quella specie di lembo luminoso, che si tagliava in mezzo a tenebre indistinte, simili a quelle che la vampa d'un fuoco di bengala o qualche proiettore elettrico illuminano e sezionano in un edificio, di cui le altre parti restino immerse nel buio: alla base, piuttosto larga, il salottino, la sala da pranzo, il richiamo dell'oscuro viale donde sarebbe giunto Swann, l'autore inconscio delle mie tristezze, il vestibolo per cui m'incamminavo verso il primo gradino della scala, che mi era tanto duro salire, e che costituiva da sola il tronco assai stretto di quella piramide irregolare; e in cima, la mia camera da letto col piccolo corridoio dalla porta a vetri per cui entrava la mamma; in una parola, sempre veduto alla stessa ora, isolato da ogni cosa che vi potesse essere intorno, stagliandosi solo nell'oscurità, lo scenario strettamente indispensabile (come quello che si vede indicato a capo delle vecchie commedie per le rappresentazioni in provincia) al dramma dello spogliarmi, come se Combray non fosse consistita che in due piani riuniti da un'angusta scala, e come se là non fossero mai state che le sette di sera.

A dire il vero, a chi m'avesse interrogato avrei potuto rispondere che Combray racchiudeva anche altre cose ed esisteva in altre ore. Ma, poiché quel che avrei ricordato mi sarebbe stato offerto soltanto dalla memoria volontaria, la memoria dell'intelligenza, e poiché le notizie che essa dà sul passato non mi serbano nulla, non avrei mai avuto voglia di pensare a quel resto di Combray. Tutto questo, in verità, era morto per me.

Morto per sempre?

Forse. Il caso ha una grande parte in tutte queste cose, e un secondo caso, quello della nostra morte, spesso non ci permette d'attendere a lungo i favori del primo. Mi sembra molto ragionevole la credenza celtica secondo cui le anime di quelli che abbiamo perduto sono prigioniere entro qualche essere inferiore, una bestia, un vegetale, una cosa inanimata, perdute di fatto per noi fino al giorno, che per molti non giunge mai, che ci troviamo a passare accanto all'albero, che veniamo in possesso dell'oggetto che le tiene prigioniere. Esse trasaliscono allora, ci chiamano e non appena le abbiamo riconosciute, l'incanto è rotto. Liberate da noi, hanno vinto la morte e ritornano a vivere con noi.

Così è per il passato nostro. E' inutile cercare di rievocarlo, tutti gli sforzi della nostra intelligenza sono vani. Esso si nasconde all'infuori del suo campo e del suo raggio di azione in qualche oggetto materiale (nella sensazione che ci verrebbe data da quest'oggetto materiale) che noi non supponiamo. Quest'oggetto, vuole il caso che lo incontriamo prima di morire, o che non lo incontriamo.

Già da molti anni di Combray tutto ciò che non era il teatro o il dramma del coricarmi non esisteva più per me, quando in una giornata d'inverno, rientrando a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di prendere, contrariamente alla mia abitudine, un po' di tè. Rifiutai dapprima, e poi, non so perché, mutai d'avviso. Ella mandò a prendere una di quelle focacce pienotte e corte chiamate «maddalenine», che paiono aver avuto come stampo la valva scanalata d'una conchiglia.

Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione d'un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzo di «maddalena». Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m'aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa.

M'aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità, la sua brevità illusoria, nel modo stesso che agisce l'amore, colmandomi d'un'essenza preziosa: o meglio quest'essenza non era in me. Era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde m'era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo ch'era legata al sapore del tè e della focaccia, ma la sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla?

Bevo un secondo sorso in cui non trovo nulla di più che nel primo, un terzo dal quale ricevo meno che dal secondo. E' tempo ch'io mi fermi, la virtù della bevanda sembra diminuire. E chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. Essa l'ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, con forza sempre minore, quella stessa testimonianza che io sono incapace d'interpretare e che voglio almeno poterle donare di nuovo e ritrovare a mia disposizione intatta, fra poco, per una spiegazione decisiva.

Depongo la tazza e mi rivolgo al mio animo. Tocca a esso trovare la verità. Ma come? Grave incertezza, ogni qualvolta l'animo nostro si sente sorpassato da sé medesimo; quando lui, il ricercatore, è al tempo stesso anche il paese tenebroso dove deve cercare e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla. Cercare? non soltanto: creare. Si trova di fronte a qualcosa che ancora non è, e che esso solo può rendere reale, poi far entrare nella sua luce.

E ricomincio a domandarmi che mai potesse essere quello stato sconosciuto, che non portava con sé alcuna prova logica, ma l'evidenza della sua felicità, della sua realtà dinanzi alla quale ogni altra svaniva. Voglio provarvi a farlo riapparire. Indietreggio col pensiero al momento in cui ho bevuto il primo sorso di tè. Ritrovo lo stesso stato, senza una nuova luce. Chiedo al mio animo ancora uno sforzo, gli chiedo di ricondurmi di nuovo la sensazione che fugge. E perché niente spezzi l'impeto con cui tenterà di riafferrarla, allontano ogni ostacolo, ogni pensiero estraneo, mi difendo l'udito e l'attenzione dai rumori della stanza accanto.

Ma, sentendo come l'animo mio si stanchi senza successo, lo costringo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a ripigliar vigore prima d'un tentativo supremo. Poi, una seconda volta, gli faccio intorno il vuoto; di nuovo gli metto di fronte il sapore ancora recente di quel primo sorso, e sento in me trasalire qualcosa che si sposta e che vorrebbe alzarsi, qualcosa che si fosse come disancorata, a una grande profondità, non so che sia, ma sale adagio adagio; sento la resistenza, e odo il rumore delle distanze traversate.

Certo, ciò che palpita così in fondo a me deve essere l'immagine, il ricordo visivo, che, legato a quel sapore, tenta di seguirlo fino a me. Ma si agita in modo troppo confuso; percepisco appena il riflesso neutro in cui si confonde l'inafferrabile turbinio dei colori smossi; ma non so distinguere la forma, né chiederle, come al solo interprete possibile, di tradurmi la testimonianza del suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, chiederle di rivelarmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si tratti.

Toccherà mai la superficie della mia piena coscienza quel ricordo, l'attimo antico che l'attrazione d'un attimo identico è venuta così di lontano a richiamare, a commuovere, a sollevare nel più profondo di me stesso? Non so. Adesso non sento più nulla, s'è fermato, è ridisceso forse; chi sa se risalirà mai dalle sue tenebre? Debbo ricominciare, chinarmi su di lui dieci volte. E ogni volta la viltà, che ci distoglie da ogni compito difficile, da ogni impresa importante, m'ha consigliato di lasciar stare, di bere il mio tè pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani, che si possono ripercorrere senza fatica.

E ad un tratto il ricordo m'è apparso. Quel sapore era quello del pezzetto di «maddalena» che la domenica mattina a Combray (giacché quel giorno non uscivo prima della messa), quando andavo a salutarla nella sua camera, la zia Léonie mi offriva dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o di tiglio.

La vista della focaccia, prima d'assaggiarla, non m'aveva ricordato niente; forse perché, avendone viste spesso, senza mangiarle, sui vassoi dei pasticcieri, la loro immagine aveva lasciato quei giorni di Combray per unirsi ad altri giorni più recenti; forse perché di quei ricordi così a lungo abbandonati fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s'era disgregato; le forme - anche quella della conchiglietta di pasta - così grassamente sensuale sotto la sua veste a pieghe severa e devota - erano abolite, o, sonnacchiose, avevano perduto la forza d'espansione che avrebbe loro permesso di raggiungere la coscienza.

Ma, quando niente sussiste d'un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l'odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l'immenso edificio del ricordo.

biscotto
E, appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di "maddalena" inzuppato nel tiglio che mi dava la zia (pur ignorando sempre e dovendo rimandare a molto più tardi la scoperta della ragione per cui questo ricordo mi rendesse così felice), subito la vecchia casa grigia sulla strada, nella quale era la sua stanza, si adattò come uno scenario di teatro al piccolo padiglione sul giardino, dietro di essa, costruito per i miei genitori (il lato tronco che solo avevo riveduto fin allora); e con la casa la città, la piazza dove mi mandavano prima di colazione, le vie dove andavo in escursione dalla mattina alla sera e con tutti i tempi, le passeggiate che si facevano se il tempo era bello.

E come in quel gioco in cui i Giapponesi si divertono a immergere in una scodella di porcellana piena d'acqua dei pezzetti di carta fin allora indistinti, che, appena immersi, si distendono, prendono contorno, si colorano, si differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e riconoscibili, così ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto quello che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè.




I due gobbi. Italo Calvino

Due gobbiDato che oggi è l'ottantottesimo anniversario della nascita di quello che probabilmente è lo scrittore italiano di maggior spessore della seconda metà del secolo scorso, Italo Giovanni Calvino Mameli (1923, 1985), ho pensato di ricordarlo con un racconto, una trascrizione di una storia popolare toscana molto divertente: "I due Gobbi".

Lo storia andrebbe letta con accento fiorentino.

I due gobbi

C'erano due gobbi, fratelli. Il gobbo più giovane disse: - Voglio andare a far fortuna, - e si mise in viaggio. Cammina cammina, dal tanto camminare si perdette in un bosco. "E ora cosa faccio? Se venissero gli assassini... Meglio che salga su quest'albero".


Quando fu sull'albero, sentì un rumore. "Eccoli, aiuto!" Invece, da una buca là per terra cominciò a uscire una vecchina, e poi un'altra vecchina, e un'altra ancora, tutta una fila di vecchine l'una dietro l'altra che si misero a girare intorno all'albero, cantando:

Sabato e Domenica!
Sabato e Domenica!

E così continuavano a girare in tondo e ripetevano sempre da capo:

Sabato e Domenica!

Il gobbo, di lassù in cima all'albero, fece:

E Lunedì!

Le vecchine restarono ammutolite, guardarono in su e una di loro disse: - Oh, chi è stata quell'anima buona che ci ha detto questa bella cosa! A noialtre non ci sarebbe mai venuto in mente! E si rimisero a girare intorno all'albero, tutte felici, cantando:

Sabato, Domenica e Lunedì!

Sabato, Domenica e Lunedì!

Dopo un po' che giravano, s'accorsero del gobbo che era in mezzo al rami. Lui tremava. - Per carità, vecchine, non m'ammazzate: m'è scappato detto quello, ma non volevo dir nulla di male. - Anzi, scendi, ti vogliamo ricompensare. Chiedi qualunque grazia e te la faremo.

Il gobbo scese dall'albero. - Allora, chiedi! - Io sono un pover'uomo; cosa volete che chieda? La cosa che vorrei sarebbe che mi fosse levata questa gobba, perché tutti i ragazzi mi canzonano. - E la gobba ti sarà levata.

Le vecchine presero una sega di burro, gli segarono la gobba, gli unsero la schiena con un unguento, la fecero tornare sana che non si vedeva niente, e la gobba l'appesero all'albero.

Il gobbo tornò a casa che non era più gobbo e nessuno del paese lo riconosceva più. - Ohi Ma non sei tu - gli fece suo fratello. Sì che sono io! Lo vedi come sono diventato bello? E come hai fatto? - Sta' a sentire, - e gli raccontò dell'albero, delle vecchine e del loro canto. - Ci voglio andare anch'io, - disse il fratello.

Si mise in viaggio, entrò in quel bosco, salì su quell'albero. Alla stessa ora, dal buco uscirono le vecchine cantando:

Sabato, Domenica e Lunedì!

Sabato, Domenica e Lunedì!

E il gobbo, dall'albero:

E Martedì!

Le vecchie presero a cantare:

Sabato, Domenica
E Lunedì!
E Martedì!

ma non veniva bene, non tornava più il verso. Si voltarono in su tutte invelenite: - E chi è quest'infame, chi è quest'assassino? Cantavamo così bene e ci ha sciupato tutto! Ora non ci torna più il verso! - Finalmente lo videro tra i rami. - Scendi! Scendi! -No che non scendo! - diceva il gobbo pieno di paura. - Voi m'ammazzate! -Scendi! Non t'ammazziamo.

Il gobbo scese, le vecchine staccarono dall'albero la gobba di suo fratello e gliel'appiccicarono davanti. - Ecco il castigo che ti meriti! Così il povero gobbo tornò a casa con due gobbe invece di una.

Morale della storia?
Non fare mai le cose che fanno gli altri se non si sa quello che si sta facendo! Altrimenti si rischia di ritrovarsi con due gobbe anziché una; una davanti e una dietro.




Quadrato magico di Durer

Albrecht Dürer (1471-1528) maggiore pittore tedesco nel Rinascimento fu anche un intellettuale di spicco, il suo pensiero, oltre la sua arte dominarono il panorama culturale mitteleuropeo dei primi decenni del Cinquecento.

Quadrato magico - Melancolia
Melencolia I

Melencolia I (o melacholia I)
Creata nel 1514 contiene molte simbologie esoteriche: l'opera - un'incisione a bulino - raffigura una torre a cui è appoggiata una scala con 7 pioli (nessuno sale o scende), una clessidra che scorre, una campana, una pietra pentagonale liscia, una bilancia con i piatti vuoti, un compasso, un cane sfinito, strumenti lasciati inoperosi a terra, un arcobaleno, un misterioso quadrato magico con 16 numeri - XVI è anche il numero della Torre (o Torre di Babele), la sedicesima carta dei Tarocchi che indica il crollo la caduta di un progetto troppo ambizioso illusorio non aderente alla realtà. La punizione divina all'orgoglio umano. E una donna alata pensierosa...

Nel Rinascimento si era soliti pensare che il genio creativo fosse malinconico e che gli studiosi pur brillanti fossero spesso incapaci di decidere perché ammalati di malinconia. I quadrati di quarto ordine per gli astrologi del Rinascimento erano collegati a Giove e combattevano la malinconia. Era forse la cura di questo male?

La tesi del Professor Panofsky in supersintesi
Secondo l'illustre storico dell'arte la parola Melencolia e I sono un chiaro riferimento al "de Occulta Philosofia" di Agrippa Nettesheim (alchimista, astrologo, esoterista e filosofo tedesco contemporaneo di Dürer) e di riconoscere sotto l'influenza di Furor Melancholicus di Saturno 3 tipi di geni:
  • i geni dell'immaginazione - artisti e creativi
  • i geni della ragione - uomini di scienza e politici
  • i geni nei quali predomina la forza della mente - teologi e profeti
Dato che l'ambiente alchemico era governato da Saturno, legato a sua volta al sentimento della melanconia, Dürer avrebbe raffigurato la "malinconia dell'artista", impossibilitata a estendere il proprio pensiero e agire oltre lo spazio fisico.

Quadrato magico
Dettaglio quadrato magico, in alto a destra
Il quadrato magico 4x4 di Dürer ha le seguenti particolarità:
  • la somma dei numeri di ogni riga, colonna e diagonale dà come risultato 34
  • la somma dei numeri dei quadrati 2x2 agli angoli e al centro dà sempre 34 
  • è un quadrato magico simmetrico perché ogni numero sommato al numero simmetricamente opposto rispetto al centro dà sempre 17
  • i numeri centrali dell'ultima riga formano l'anno in cui Dürer fece questa incisione

Il paese dei barbieri

L'indovinello di logica che segue è basato sul paradosso del barbiere nel quale potete trovare qualche utile spunto per risolvere questo.

Barbieri

In un piccolo paese ci sono solo due barbieri: Nino e Silvano.

Nino è un chiacchierone con un taglio di capelli ordinato alla moda e una rasatura perfetta, ha una sala elegante, pulita, aria condizionata e una comoda poltrona, inoltre mette al servizio della clientela in attesa un angolo con riviste e giornali recenti e televisione.

Silvano è un burbero, ha i capelli tagliati male e in pessimo stato, la sala ha bisogno di una risistemata, la poltrona è scomoda e il posacenere è sempre pieno.

Sapendo che la metà dei paesani ha un bel taglio di capelli e l'altra metà un brutto taglio di capelli e sapendo che tutti i paesani si tagliano i capelli o da Nino o da Silvano...

Da chi vi fareste tagliare i capelli? E perché?




Sudoku online

Sudoku
Come giocare a Sudoku
Il Sudoku (sono consentiti solo numeri solitari) è un gioco di logica giapponese simile al quadrato latino nel quale il giocatore deve risolvere una griglia composta 9x9 celle, ciascuna delle quale può contenere una 1 a 9 o inizialmente essere vuota.


La griglia è suddivisa:
  • 9 colonne
  • 9 righe
  • 9 sottogriglie (regioni 3x3)
  • bordi più marcati
Lo scopo consiste nel riempire le caselle bianche con numeri dall'1 al 9 - i numeri di partenza vanno da 20 ai 35 secondo la difficoltà - in modo che tutte le righe, tutte le colonne e tutte le regioni abbiano uno e un solo numero che va dall'uno al nove.






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